La complicata vita di Elisandro

Quella notte avevo bevuto a fondo. Mi girava la testa per quanto avevo fatto in fretta. La fame mi divorava, quindi avevo dovuto buttarmi sul primo che passasse. Non mi era andata tanto male comunque: una giovane donna sui 25 anni nel pieno della salute. E nel pieno della vita. Era stato un gioco da ragazzi avvicinarla con la solita scusa della sigaretta da accendere. Il mio sorriso rassicurante e la faccia da bravo ragazzo ricevuta in dono dai piani alti, forse per ripagarmi del resto che non mi è stato dato,  avevano fatto il resto. Finora nessuna aveva dato segno di aver timore a condividere un pezzo di strada con me. E meno male, altrimenti avrei fatto la fame.

«Mi dispiace non poterti essere utile», aveva risposto la biondina prescelta.

«Dai va bene così, almeno evito di fumarla. Vedi: mi stai facendo un favore. In realtà mi sei più utile di quanto credi», avevo detto facendo l’occhiolino e suscitando una leggera risata di lei. Sapessi, mia cara.

«Scusami se ti sembro invadente, ma non mi sembra una bella strada da fare di notte da sola.» procedevo come da copione. «In che direzione vai? Magari ti accompagno per qualche isolato, giusto per allontanarci da qui».

«Grazie, ma non vorrei farti fare della strada inutilmente. Io vado verso corso San Massimo.»

«Perfetto! Io sto in via Mazzini.»

Certo: nascondere i tic nervosi che la sete mi procura è ogni volta una gran rottura di palle. Ma ormai l’ho fatto talmente tante volte da essere perfettamente padrone di me stesso, anche dopo giorni che non mi nutro. Sono diventato il campione mondiale di “dissimula che le salteresti addosso non per fare quello che ogni ragazzo normale della tua età farebbe, ma solo per scolarla come un fiasco di vino”. La sensazione che mi suscita quel liquido corposo e caldo che scende giù per la gola e mi riempie lo stomaco come il più squisito dei brandy (non ho idea di che gusto abbia il brandy, ma fa tanto figo dirlo) mi ripaga abbondantemente di tutti gli sforzi della caccia. Il problema sorge dopo: devo trovare qualcosa con cui ripulirmi la bocca e il collo ma, soprattutto, devo sbarazzarmi del cadavere.

Per il primo inconveniente del mestiere – fatevelo dire da chi da un anno a questa parte è diventato un esperto – di certo non bastano i fazzolettini che gli altri usano per soffiarsi i loro nasini raffreddati. Tre pacchi non bastano. Una volta in una situazione di emergenza ho dovuto usarli e mi sono ritrovato con pezzetti di carta appiccicati in ogni dove in volto. Ogni santa notte mi riprometto di comprare delle salviette umidificate, di quelle che le donne usano per struccarsi. Anche in quel caso però me ne servirebbero a dozzine. Dovrei comprarne un formato famiglia o dei pacchi scorta all’ingrosso. Magari su ebay. Devo provare a cercare. Di solito risolvo aprendo il cappotto della vittima, pulendomi con la sua maglia e richiudendo per nascondere tutto. Ora che è inverno poi, una volta ripulito alla meglio, alzo la sciarpa fin sopra il naso ed entro nel primo bar a comprare una mezza naturale con cui lavare via gli ultimi residui rossi. Non posso di certo girare per Torino con il muso sporco di sangue!

Per il secondo problema in realtà non ho ancora trovato una soluzione definitiva. I due fiumi della città mi offrono un nascondiglio sicuro per i corpi settimanali che produco, ma trasportarli fin lì è un macello. Vi sarete immaginati che io abbia l’aspetto di un aitante giovane dal fisico prestante e i muscoli pompati.

Magari avete presente Angel di “Buffy l’ammazzavampiri”.

Acqua, ragazzi miei.

Damon di “The vampire diaries”?

Cascate del Niagara, proprio.

Edward stocavolo Cullen? Fuochino.

Diciamo che la definizione corretta da darmi sarebbe: esile. Sono alto e magro e trascinarmi dietro un corpo di 50 chili per me non è propriamente una passeggiata. Le donne di solito me le appoggio addosso e faccio finta che camminiamo stretti abbracciati come due innamorati. Dopo 500 metri non sento più le braccia, ma dettagli. Con gli uomini no, non si può fare. Non perché io sia omofobo o roba simile, ma semplicemente perché, spiegatemi, come me lo carico addosso un peso massimo di 90 kg? E credetemi che mi è successo. Non si possono sempre avere ragazze magroline. A volte i pasti devono essere più sostanziosi e lì ci scappa l’uomo palestrato.

Quella notte per l’appunto stavo andando verso la Dora. Dovete sapere che la Dora, come tutte le donne, fa un po’ la stronza: ci sono dei punti in l’acqua è talmente bassa da vederne il fondale. Voi lo nasconderesti lì un corpo? Quindi se decidi per la Dora devi conoscere perfettamente il punto in cui le acque sono più profonde e sperare, pregando tutti i santi in cielo e in terra, che quella perfida non spinga il corpo dove è facilmente visibile.

«Ma non vanno comunque a cercare nei fiumi un volta denunciata la scomparsa di tutte le persone che fai fuori?», vi starete chiedendo. E io cosa cavolo ne so? Una volta eliminata la prova della mia cena, per me è finita, non posso preoccuparmi di chi mangio. Di cosa mi tocca campare altrimenti? Di aria? Benvenuti nel bordello che è la mia vita!

[Cit.] A differenza dell’uomo

«Un’aspide. Questo è l’animale che più somiglia all’uomo. Striscia e all’occorrenza cambia pelle. Ruba e mangia i piccoli delle altre specie quando sono ancora nel nido, ma è incapace di affrontarli in un combattimento a viso aperto. La sua specialità è approfittare della minima opportunità per assestare il suo morso letale. Il veleno è sufficiente solo per un morso e ha bisogno di ore per rigenerarsi, ma chi ne porta i segni è condannato a una morte lenta e sicura. Mentre il veleno penetra nelle vene della vittima, il cuore batte sempre più piano, fino a fermarsi. Ma perfino questa bestiola, nella sua meschinità, possiede un certo gusto per la poesia come l’uomo. Anche se, a differenza dell’uomo, non morderebbe mai un suo simile

Il Palazzo della mezzanotte“, Carlos Ruiz Zafon

L’ira di Ettore

Si era alzato nel bel mezzo dello spettacolo. Non era il suo turno: il copione prevedeva che se ne stesse ancora seduto lì sulla poltroncina di velluto in quel salotto finto per altre dieci battute e che poi esordisse con un sorpreso e pacato: «Sta forse rivolgendo queste accuse contro di me, Madame?». Ma lui si era alzato. Si era guardato attorno con uno sguardo confuso, che forse lo era più di quelli che gli venivano rivolti da spettatori e attori.

«Signore, prego si rimetta a sedere.», aveva tentato di persuaderlo la protagonista, con le labbra tirate in un sorriso forzato e l’imbarazzo negli occhi. Ma lui non sentiva. Ettore sembrava essere stato inghiottito in un’altra dimensione. Aveva fatto qualche passo verso il centro del palco appoggiandosi claudicante sul bastone che faceva parte del suo travestimento. Non era ancora uscito del tutto dal suo personaggio: personaggio e attore fusi in un unico corpo. Si portò sotto l’accecante bagliore del proiettore principale e alzò il bastone verso la platea. Indicò gli spettatori della prima fila, uno per uno. Si soffermava a fissarli, a scrutarli fin dentro l’anima. Se foste stati tra quegli spettatori avreste certamente visto anche voi lampi e fuoco danzare nelle sue iridi. La sua faccia si contorse in una smorfia di disprezzo. Un bambino, spaventato dall’atmosfera grave che aveva invaso il teatro, scoppiò a piangere.

Ettore alzò la mano libera al cielo e, guardandola, sembrava afferrare quell’aria spessa come una coltre di nebbia. Lentamente abbassò la testa e pose nuovamente lo sguardo bieco sulle prime file, inarcando il capo e tornando ad indicare la gente.

«Voi. Voi! Ve ne state qui, protetti nei vostri abiti costosi, ad osservare i drammi degli altri. Voi! Credete che il prezzo di un misero biglietto vi dia il diritto di ficcare il naso negli affari altrui. Ci osservate, ci giudicate, ci analizzate come se fossimo dei microbi su un vetrino da laboratorio. E non vi basta! Guardate fissi nel microscopio alla ricerca di uno sbaglio, di un tentennamento che vi permetta di darci una valutazione. Voi! Non sapete nulla di noi. Che cosa abbiamo vissuto in realtà, quali siano stati i nostri veri sentimenti, voi lo ignorate. Voi! Ci credete fortunati perché svolgiamo il più emozionante dei lavori. Ci credete fortunati perché abbiamo vissuto vite che valgano la pena di essere raccontate su di un palco. Ma voi! Voi non sapete niente! Non sapete la fatica, non sapete le notti insonni, non sapete i pianti della delusione, non sapete l’indignazione delle raccomandazioni, non sapete l’orrore del darsi anima, corpo e cuore a un padrone feroce e crudele, insensibile alle vostre pene. Voi non sapete la tristezza del restare senza niente, la disperazione nel vedere che ciò che a te ha tolto agli altri dà lavoro e intrattenimento.»

«E voi! », continuò voltandosi bruscamente e inaspettatamente verso il palco. «Voi storpiate, manipolate, riarrangiate indoli e passioni di chi vi è estraneo per farle vostre. Per risultare credibili plasmate forme che non sapete se siano mai esistite, senza curarvi se ciò possa ferirci, se ciò possa turbare la nostra pace che almeno nel posto in cui ora siamo ci è stata concessa. Voi siete falsi. Voi siete ipocriti. Voi siete bugiardi. Voi non siete neanche più voi! Chi siete voi?»

Ettore tornò a voltarsi verso la platea. Gli occhi spalancati che lottavano, da una parte per uscire dalle orbite, dall’altra per rimanervi. C’era chi giurava di non avergli visto sbattere le palpebre neanche una volta durante il suo discorso.

Alzò il bastone verso il cielo, come per incanalarvi tutta l’energia diabolica dell’universo e, facendo un giro su se stesso, la sprigionò in tutto il teatro, su ogni uomo presente.

«Io vi maledico!», urlò a squarciagola. «Che siate dannati voi tutti! Possano le fiamme divorare questo teatro, possa il pavimento aprirsi e trangugiarvi, spettatori ingrati e attori traditori!»

Quello era il volto della rabbia, signori e signore. Il più potente dei veleni, il più infido dei sentimenti. Rabbia nella sua essenza più pura. Rabbia incondizionata, inspiegabile, irrazionale, assurda. Eppure rabbia.

La stessa rabbia del Pelide che era stata causa di innumerevoli morti. La rabbia che aveva ridotto il corpo di un valoroso guerriero, figlio, marito, padre, in un cumulo di carne e ossa. Una rabbia ostinata, prepotente, testarda, vendicativa. La rabbia più famosa al mondo. La rabbia più furiosa al mondo.

Ma non era certo da meno la rabbia di Ettore. A Ettore con il suo animo meno impulsivo, riflessivo, tanto umano da essere spaventato e da tirarsi indietro, non viene mai associata la rabbia. Eppure la rabbia in lui c’era. E forse aveva proprio approfittato di quello spettacolo per dimostrarlo.

Ma il corpo di Ettore, Ettore l’attore, non poteva reggere oltre. Con il bastone ancora per aria si accasciò pian piano sfinito sul pavimento. Tenendo su la testa era tornato a guardarsi attorno, atterrito, turbato, sconvolto, mentre dei tremiti di stanchezza gli scuotevano gli arti.

Un signore in prima fila, uno di quelli che era stato maledetto con più foga, si alzò. E lentamente cominciò ad applaudire. Seguirono applausi da ogni angolo del teatro. Ogni poltrona rimase vuota dietro agli spettatori che in piedi rendevano omaggio a quella che per loro era stata la più strepitosa delle esibizioni. Urla, fischi di approvazione, un battere incessante si diffusero fino ai sotterranei, dove gli addetti alla pulizia attoniti si chiedevano quanto fosse stata apprezzata la piece per provocare quel trambusto.

Ettore posò il capo per terra e decise di evadere, chiudendo gli occhi, da quel covo di matti che applaudivano senza una ragione.

Senza che se ne potesse rendere conto Ettore, dopo decenni di ruoli marginali ottenuti lottando a denti stretti contro la concorrenza, aveva appena ricevuto la prima maestosa approvazione, la prima standing ovation della sua vita.